L’empatia nella relazione terapeutica
Perchè parlare di empatia nel contesto riabilitativo? L’instaurarsi di una sana relazione terapeutica tra terapista e paziente è secondo molti alla base del successo di un trattamento, sia esso riabilitativo o meno. La fiducia nel proprio terapista, infatti, motiva il paziente all’adesione al progetto riabilitativo, lo spinge a dare il massimo e ad affrontare i molteplici ostacoli che la disabilità inevitabilmente pone.
Ma qual’è il modo corretto di instaurare una sana relazione terapeutica? Sicuramente non esiste un solo modo, e sicuramente non ne esiste uno semplice, ma possiamo porre le basi per una riflessione nel considerare due possibili modi di rapportarci al paziente: attraverso l’empatia o la simpatia.
La relazione “simpatica”
Dal lat. sympathia, che è dal gr. sympátheia, der. di páthos ‘affezione, sentimento’, col pref. syn- ‘con, insieme’ •sec. XVI.
Una relazione basata sulla simpatia, cioè sul “sentire insieme”, renderà il terapista partecipe di tutte le tribolazioni affrontate dal paziente: presenti, passate e future. Un’immedesimazione profonda, nonostante possa per certi versi sembrare il modo più umano di relazionarsi, è a lungo termine deleteria. Quando il paziente sarà stanco e scoraggiato, lo sarà anche il terapista. E sarà vero anche il contrario: il terapista, anch’egli persona, porterà in sede di trattamento le sue preoccupazioni, ansie e incertezze, ricercando nel paziente, ormai suo confidente, una rassicurazione.
Ma non ci vorrà molto perchè il paziente stesso capisca che la relazione “simpatica” non gli porta i benefici sperati: si affezionerà magari molto al suo terapista, ma preferirà il lavoro con l’altro, quello con cui ha meno confidenza, perchè lo spinge a lavorare meglio.
Questo tipo di relazione, in cui vi è uno scambio reciproco di sentimenti, è quella che ci aspettiamo dai familiari e dagli amici, ma non è funzionale alla riabilitazione.
La relazione empatica
La parola deriva dal greco “εμπαθεία” (empatéia, a sua volta composta da en-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”) – Il significato etimologico del termine è “sentire dentro” – In psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale.
L’empatia invece ci permette di sentire ed immedesimarsi in un’emozione che non è nostra, ma rimanendone al di fuori. Sarebbe infatti controproducente relazionarci al paziente in maniera totalmente fredda e distaccata, come unico sistema per non cadere nella “simpatia”: egli si sentirebbe poco importante, poco ascoltato, poco motivato. Entrare in empatia consiste nel trovare quel giusto equilibrio tra il distacco e la vicinanza che permetta alla relazione di essere realmente terapeutica.
Rimanendo in empatia, il terapista non condivide con il paziente le proprie ansie e preoccupazioni, a maggior ragione se personali. Tenta di portare sempre un certo livello di positività nella vita di una persona che, com’è ovvio, affronta un periodo di estrema negatività. Offre in questo modo un appiglio al senso di disperazione che spesso si prova durante una malattia fortemente invalidante, come può essere un ictus o la sclerosi multipla.
Non si lascia convincere facilmente che lo stato d’animo del paziente sia di ostacolo al trattamento. Lo ascolta per il giusto tempo, ma cerca di andare oltre. Questo tipo di relazione può essere riassunta in questa frase:
Ti ascolto, ti capisco, è molto dura. Ma insieme ce la possiamo fare. Quindi ora… si lavora!
Nonostante a volte sia difficile instaurare questo tipo di relazione, soprattutto all’inizio dell’esperienza lavorativa, vi posso assicurare che è quella che porterà i maggiori benefici. È quindi dovere di ogni terapista, figura riabilitativa, medico, infermiere, ecc, impegnarsi nel tentare di rimanere in empatia con il paziente a vantaggio di entrambi.